martedì 1 luglio 2025

IMPARARE DA CHI SA SOLO DOMANDARE

IMPARARE DA CHI SA SOLO DOMANDARE

Chi ha detto che insegnare la fede ai bambini sia un percorso a senso unico? Quando abbiamo deciso di battezzare i nostri figli, credevamo – con una certa innocenza – che il nostro compito sarebbe stato quello di "trasmettere" la fede, come si tramanda una storia di famiglia o una ricetta segreta. Ma non avevamo messo in conto che, prima ancora di "insegnare", saremmo stati chiamati a reimparare. E non dai libri o dai catechismi, ma dai nostri stessi figli.

 Le domande che pongono sono piccole bombe a orologeria che scardinano le formule imparate a memoria. Non tanto per la loro complessità teologica, ma per la loro limpida semplicità. Non hanno filtri. Non hanno paura di chiedere. E soprattutto non si accontentano di risposte vaghe. Vogliono capire davvero. Vogliono sentire il senso delle parole.

 

"Mamma, cos'è lo Spirito Santo?"

 

Quante volte l’ho detto senza pensarci: “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Ma se il Padre e il Figlio hanno un volto, uno spazio narrativo nei Vangeli, lo Spirito Santo rimane il più sfuggente. E allora provi a semplificare: "è come una voce calma nel cuore". Ma i bambini si danno un colpetto sul petto e dicono: "Io non la sento." E tu? La senti davvero?

 Sono interrogativi che ti tolgono il fiato e ti mettono davanti al tuo stesso vuoto, o alla tua fede non ancora abitata pienamente. C’è qualcosa di meravigliosamente scomodo in tutto questo. Una santa inquietudine.

 

Paradisi e razzi

 

Quando un bambino ti chiede se si può andare in paradiso con un aereo, tu ridi. Ma poi ti fermi. Perché il problema non è solo tecnico – no, gli aerei non arrivano fin là – ma concettuale. Che cos’è davvero il paradiso? E dove si trova? E perché mai pensiamo sempre di poterlo "raggiungere", come se fosse un posto fisico e non uno stato dell’anima?

 In fondo, anche noi adulti usiamo le stesse immagini spaziali per descrivere l’aldilà: in alto il paradiso, in basso l’inferno. E i bambini, fedeli al linguaggio che imparano, si chiedono se il diavolo viva sottoterra, e se sia il caso o meno di battere i piedi sulla neve per non disturbarlo. Un'immagine poetica, assurda e, paradossalmente, coerente. Più coerente forse delle nostre spiegazioni raffinate.

 

La lingua del cielo

 

"Ma in che lingua si parla in paradiso?" Sembra una battuta, ma è una domanda teologicamente serissima. Presuppone il desiderio di comunicazione universale, di comprensione reciproca, di unità oltre le barriere umane. È il sogno di Pentecoste visto con gli occhi di un bambino. E forse anche la nostra nostalgia di una lingua che non abbia bisogno di traduzioni, perché parla direttamente al cuore.

 

Educare è essere educati

 

Queste domande ci mettono in crisi, ma non in senso negativo. È una crisi salutare, generativa, che ci costringe ad abbandonare i cliché per cercare parole vere. Non risposte prefabbricate, ma riflessioni sincere. Perché, se non riesco a spiegare a un bambino dove vive Gesù risorto, forse non l’ho capito nemmeno io. E allora smetto di fingere e comincio a cercare.

 L’educazione alla fede, in questo senso, diventa un cammino condiviso. Non siamo noi a portare i bambini verso Dio, ma siamo insieme in cammino verso qualcosa che ci supera, e che ci chiama ad andare sempre più in profondità.

 

Una fede viva, non addomesticata

 

I bambini non hanno ancora assimilato le formule, non hanno paura di dire “non capisco”. Non danno per scontato nulla, e proprio per questo vedono con una limpidezza che noi abbiamo perso. Il loro modo di pensare è sorprendente perché è ancora libero. Libero da strutture dottrinali troppo strette, libero da paura del giudizio, libero persino dalla pretesa di avere risposte definitive. Loro cercano. E nel cercare, ci insegnano a cercare con loro.

 E allora forse la vera teologia nasce proprio lì, tra il seggiolino dell’auto e il tappeto della cameretta. Nasce da un “perché?” detto con gli occhi spalancati. E forse il nostro compito non è tanto rispondere, ma restare presenti. Restare fedeli. Continuare a cercare insieme.

 Perché a volte, anche solo dire con sincerità “non lo so, ma proviamo a capirlo insieme” è già una forma altissima di fede.

 

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