martedì 17 giugno 2025

VINCENZO MOLLICA

VINCENZO MOLLICA

C'è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui Vincenzo Mollica racconta la sua vita. Una vita fatta di parole, immagini, arte, ma soprattutto di fragilità trasformata in forza. In un mondo dove la malattia viene spesso nascosta, temuta o descritta solo come una sconfitta, Mollica ci insegna a guardarla negli occhi. E a farlo col sorriso.

 Ha dato un nome ironico ai suoi due compagni più temibili: “mister e signora”, riferendosi rispettivamente al Parkinson e alla cecità. Ma dietro l’ironia non c’è negazione: c’è resistenza. Non una resistenza muscolare o eroica, ma quella più difficile, fatta di fiducia quotidiana, di poesia, di ricordi che illuminano le giornate opache.

 In fondo, cos’è un sorriso, se non un atto di ribellione contro la resa? Per Mollica è un’arma gentile, una forma di grazia, un modo per continuare a camminare anche quando non si vede più la strada. Ecco allora che il consiglio di Andrea Camilleri – aggrapparsi alle cose belle nei momenti più bui – diventa un faro per tutti noi. Non solo per chi soffre, ma anche per chi ha dimenticato come si sogna.

 

Una vita narrata con passione

 

Mollica ha raccontato il mondo della cultura italiana per oltre quarant’anni con un entusiasmo contagioso, ma senza mai perdere la meraviglia dello spettatore. In un tempo in cui l'informazione tende a diventare cinica o urlata, lui ha scelto la via della delicatezza. Ha intervistato miti del cinema e della musica, eppure ogni incontro per lui era un incontro con la bellezza, non con la celebrità.

 È rimasto fedele a una regola che oggi sembra quasi fuori moda: racconta solo ciò che ami. Non per ideologia, ma per onestà. Perché la cultura – quella vera – non si può improvvisare: la si vive, la si respira, la si custodisce. E Mollica lo ha fatto con la tenerezza di chi sa che ogni storia è un dono.

 Dai fumetti di Andrea Pazienza alla poesia di De Gregori, dal cinema di Fellini alle risate gentili di Benigni, ogni incontro ha lasciato un segno profondo. E oggi, nella quiete di una stanza piena di dischi e libri, Mollica non cerca più storie da scrivere: cerca solo di non dimenticare le proprie. Con umiltà, annota ricordi prima che il tempo li sfumi, come un artigiano che restaura ciò che ama.

 

L’amore come radice che sostiene

 

Ma se c’è un elemento che emerge in ogni sua parola, è la figura della moglie, Rosamaria. Un amore lungo quasi cinquant’anni, fatto di complicità, leggerezza, coraggio. La loro immagine su una Vespa arancione, con un panino e una birra nello zaino, è l’emblema di un romanticismo essenziale, senza fronzoli. Non serve molto per essere felici, sembra suggerire Mollica: basta avere accanto qualcuno che ti guarda negli occhi anche quando tu non puoi più vederli.

 Rosamaria non è solo una presenza accanto: è una co-protagonista silenziosa, un sostegno discreto, una luce nella nebbia. In un tempo in cui la parola “cura” viene spesso relegata agli ospedali, lei la incarna nel senso più pieno: cura come presenza, come ascolto, come fedeltà.

 

Vivere è un atto d’arte

 

Oggi Vincenzo Mollica non cerca la gloria, e nemmeno la nostalgia. Preferisce la “minestrina di Paolo Conte”, simbolo di una vita semplice, ma non spenta. Non scrive autobiografie, non cerca di fissare la memoria con l’ossessione dell’eternità. Semplicemente vive. E nel vivere, ci insegna a rallentare, a guardare, ad ascoltare.

 La sua storia è un promemoria silenzioso: non bisogna essere forti per resistere, bisogna essere veri. E non bisogna vedere per credere nella bellezza: basta ricordare, basta immaginare, basta amare.

 Mollica ci mostra che la fragilità non è un difetto da nascondere, ma un luogo in cui germoglia la tenerezza. E che finché avremo un sorriso in tasca, il buio non avrà mai l’ultima parola.

 

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