80 anni fa
veniva giustiziato Dietrich
Bonhoeffer, teologo protestante, pastore e patriota tedesco, con l'accusa di
avere cospirato contro Hitler.
Il 9 aprile è
l’ottantesimo anniversario della morte di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945),
giustiziato all’età di 39 anni nel lager di Flossenbürg, dopo due anni di dura
prigionia per “complicità in alto tradimento della patria” e “demoralizzazione
delle truppe e renitenza al servizio militare”. Rinchiuso dapprima nel carcere
militare di Tegel (Berlino-Brandeburgo), dopo la scoperta della sua partecipazione
al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944 verrà condotto nel carcere
della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse. Da lì sarà trasferito nel febbraio
1945 nel lager di Buchenwald, poi a Regensburg, a Schönberg in Baviera, e
infine a Flossenbürg, dove due settimane prima della liberazione del campo da
parte alleata verrà impiccato insieme ad Hans Oster e all’ammiraglio
Wilhelm Canaris.
Quest’ultimo,
a capo dell’Abwehr, il servizio segreto militare del Reich, insieme al
colonnello Claus von Stauffenberg, cattolico, e ad Hans von Dohnányi aveva
organizzato l’Operazione Valchiria, nella quale furono cooptati Dietrich
Bonhoeffer e suo fratello Klaus, cognati di Dohnányi. Da quel momento, Bonhoeffer
si impegna in un complesso esercizio di doppi giochi e di menzogne “per la
verità”.
L’Operazione
Valchiria prevedeva un colpo di Stato a seguito dell’uccisione di Hitler con
una bomba piazzata nella Wolfsschanze, la Tana del lupo, quartier generale del
Führer a Rastenburg. Tuttavia la valigetta con l’ordigno, collocata sotto al
tavolo da von Stauffenberg prima di allontanarsi con una scusa, restò lontana
da Hitler e il tavolo gli fece da schermo nell’esplosione.
In seguito
al fallimento del 20 luglio, le speranze di liberazione dalla prigionia vennero
meno. Già ben prima del suo arresto, Bonhoeffer aveva messo in conto la
possibilità dell’estremo sacrificio, come aveva presentito nel 1942:
“Finché non è giunta la sua ora, Cristo si è sottratto alla sofferenza; a quel
punto però è andato liberamente incontro ad essa, l’ha affrontata e vinta. […] Noi
non siamo Cristo, ma se vogliamo essere cristiani, dobbiamo condividere la sua
grandezza di cuore nell’azione responsabile, che accetta liberamente l’ora e si
espone al pericolo”.
Ma che cosa
aveva portato un pastore luterano e raffinato teologo a farsi protagonista
della resistenza al regime nazista? Bonhoeffer fondò nel 1934 con Karl Barth
una Chiesa confessante in aperta polemica con la subalternità al nazismo della
Chiesa evangelica ufficiale. Nel 1939 decise di tornare in Germania, declinando
un sicuro asilo a New York.
Nel 1942,
mentre la Gestapo era già sulle sue tracce, Bonhoeffer donò ad alcuni amici
fidati un breve scritto a futura memoria, Dieci anni dopo, in cui riaffermava
la responsabilità personale del cristiano dinanzi al mondo. Se si sfugge al
confronto pubblico in nome di una “virtù privata”, si dovrà allora chiudere
occhi e bocca davanti all’ingiustizia. Solo chi accetta la responsabilità
dell’azione, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio, può “colpire in
profondità e vincere il male”.
Bonhoeffer
sapeva che la libertà cristiana non significa evitare il peccato, ma assumersi
il rischio dell’azione responsabile. L’Operazione Valchiria, tuttavia, fallì. Gli Alleati non
credettero all’esistenza di una resistenza interna e la Gestapo scoprì la rete
cospirativa, arrestando Bonhoeffer e il cognato von Dohnányi il 5 aprile 1943.
La sua prigionia a Tegel rafforzò in lui la convinzione che Dio fosse
presente nella storia e nel mondo, non in un al di là distante.
Le Lettere
alla fidanzata e gli scambi epistolari con l’amico Eberhard Bethge, raccolti in
Resistenza e resa, documentano la tensione morale e la fede di Bonhoeffer, che
spinse la sua teologia verso una radicale cristologia dell’incarnazione e della
croce, sempre sotto il segno della risurrezione. Egli rifiutava un
cristianesimo alienante e spiritualista, affermando invece: “Se la terra è
stata fatta degna di sostenere i passi di Gesù Cristo, se è vissuto un uomo
come Gesù, allora e solo allora per noi uomini vivere ha un senso”.
Per
Bonhoeffer, la fedeltà alla terra e la speranza della risurrezione non erano in
contraddizione. “Solo quando si amano la vita e la terra al punto tale che
sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla
risurrezione dei morti e a un mondo nuovo”. La sua scelta di partecipare
alla congiura contro Hitler non era dunque un tradimento, ma un atto di
amore supremo per la vita stessa, in fedeltà a Cristo e alla sua chiamata.
Bonhoeffer
non cercava la morte, ma era disposto ad accoglierla se necessario, perché la
sua fede non era una fuga dalla realtà, bensì un radicamento profondo in essa. Nella
sua ultima lettera a Bethge, il 27 marzo 1944, scrisse: “Non è nell’ars
moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente
un nuovo vento purificatore. Vivere partendo dalla risurrezione: questo
significa Pasqua”.
Questa
visione teologica ed esistenziale si riassume nella domanda guida della sua
vita: “Chi è Cristo per noi oggi?” La risposta di Bonhoeffer colloca
Cristo al centro della vita, non ai margini dell’esistenza umana. Il
cristianesimo non è evasione dal mondo, ma impegno concreto nella storia,
perché “Cristo al centro della vita” è la testimonianza che lascia ai
cristiani di ogni tempo.
Nel tempo
del nichilismo nazista, Bonhoeffer testimoniò una fede che non si rifugiava
in un “altrove” lontano, ma che si radicava nella responsabilità e nella
speranza. Ancora oggi, la sua eredità ci interroga: “Chi è Cristo per noi
oggi?”