giovedì 21 agosto 2025

E SE FOSSIMO NOI A DOVER IMPARARE LA FEDE?

E SE FOSSIMO NOI A DOVER IMPARARE LA FEDE?

Nel cuore del Tur Abdin, regione antica della Mesopotamia e culla del cristianesimo siriaco, mons. Paolo Bizzeti accompagna un gruppo di pellegrini lungo una strada punteggiata di villaggi cristiani ridotti a minuscole presenze in un mondo che sembra averli dimenticati. «Se si vuole capire la logica della salvezza non si deve temere di essere piccolo gregge, granello di senape, lievito», ripete spesso, mentre guida tra le colline, i campi assetati e le pietre che raccontano una fede antica.

 A Ömerli vive l’unica famiglia cristiana rimasta in una popolazione di 14.000 abitanti. Cemil Akdemir, fabbro da sette generazioni, è il custode di una piccola chiesa dedicata a San Giorgio. Con i suoi quattro figli, due zii disabili e i nonni, testimonia ogni giorno una fede radicata nella semplicità, nel lavoro e nella memoria viva. «Non siamo servi del denaro ma del nostro Signore», dice ai pellegrini. La chiesa è il cuore della comunità, luogo di memoria e di futuro: i figli devono studiare, magari all’estero, per costruire un domani diverso.

 Da Midyat verso Cizre, nel villaggio di Bsorino, abuna Saliba, tornato dopo vent’anni in Svizzera, racconta le decimazioni di cristiani, la distruzione di vigneti, chiese, testi sacri e la speranza che ancora anima il luogo. Qui un tempo si contavano venticinque chiese. Ora resta una piccola comunità di bovari e contadini, ma con una fede incrollabile: come nel 1492, quando più di mille abitanti partirono a piedi per Gerusalemme. Saliba ha costruito una casa di accoglienza e ripete con forza: «Mi ero sistemato in Europa, ma qui c’era bisogno di me».

 Nel villaggio di Midin, dove si trova la chiesa restaurata dedicata a Giuda Taddeo, abuna Semun Uçar parla delle antiche iscrizioni siriache e dei pochi cristiani che ancora tornano d’estate. Alcuni tentano una rinascita con la produzione di vino e l’apertura di pizzerie, ma le difficoltà restano: mancano i sostegni educativi, manca il futuro per i giovani. Eppure la fede li tiene in piedi: «Non dobbiamo costruire solo pietre ma comunità di fedeli».

 Nel piccolo villaggio di Beth Kustan, diciassette famiglie cristiane resistono. Il cortile di una casa povera, tra galline e capre, diventa luogo di accoglienza. La diaspora ha portato via metà della popolazione, ma chi resta si dedica alla terra e agli anziani. Una ragazza sogna di studiare inglese e insegnare. Gli occhi brillano. «Istruirsi è fondamentale», dicono, «aiuta a costruire il dialogo». Eppure emigrare è sempre più difficile.

 A Idil, vicino al confine, Seydi Gösteris, una donna piena di energia e fede, racconta di come il suo paese, un tempo interamente cristiano, sia sopravvissuto miracolosamente all’assedio del 1915, grazie a un’apparizione della Vergine che avrebbe protetto il villaggio. Le chiese, distrutte negli anni Ottanta, sono state restaurate dalla diaspora. Seydi è tornata nel 2008, dopo anni di lontananza dalla fede e una guarigione miracolosa della madre: «Mi sono realmente convertita e il Signore mi ha messo nel cuore di tornare».

 L’associazione “Il giardino dei bambini”, ha raccolto tonnellate di aiuti per le minoranze cristiane, yazide e alawite in Iraq e Siria. Più di 200 progetti, tra scuole, ospedali, sartorie, case di riposo. A Aleppo, Homs, Latakia, dove la condizione dei bambini è oggi disperata, vuole aprire nuovi centri. «Il Signore mi dà la volontà e il coraggio. Siamo volontari, lavoriamo per amore».

 Il vescovo Filiksinos Saliba Özmen, a Mardin, guarda alla Siria con preoccupazione ma anche speranza: che l’Europa intervenga, che i cristiani tornino a essere ponte tra Oriente e Occidente.

 Il viaggio si conclude a Nusaybin, al confine siriano, presso la chiesa di San Giacomo, ora solo ruderi. Nel battistero più grande del mondo si celebra una messa tra le pietre antiche. Un gruppo di bambini invita a giocare, ma dice: «Mamma ci dice di non andare oltre, dove è buio». Oltre c’è la Siria. Oltre c’è ancora guerra, miseria, attesa.

 Ma anche lì, tra rovine e confini, resiste la luce fragile e testarda di chi continua a credere che la speranza, anche piccola come un granello di senape, può ancora cambiare il mondo.

 Da questi racconti possiamo imparare che la fede autentica resiste anche nelle avversità più dure, alimentata da memoria, solidarietà e speranza. La testimonianza silenziosa di piccoli gruppi può custodire un'intera tradizione. L’istruzione e il ritorno alle radici diventano strumenti di rinascita. E l’amore, più della forza, costruisce comunità durature.

 

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